Tre spunti per partire: la guerra in Ucraina, la conflittualità malata, la mia piccola esperienza.

 

La guerra in Ucraina è davanti a noi come una brutale smentita delle parole di Gesù: «Beati i miti perché erediteranno la terra». In Ucraina vediamo che i carri armati e le bombe sono il mezzo per guadagnarsi la terra e probabilmente alla fine se si vorrà ottenere la pace qualche pezzo di terra dovrà essere lasciato all’aggressore.

La conflittualità malata. In queste ultime settimane abbiamo ascoltato attoniti di alcune conflittualità esasperate nei legami più forti come quelli affettivi e coniugali. La violenza e l’uccisione delle donne fino a ieri amate, una madre che uccide un figlio. La storia di Caino e Abele è messa là all’inizio della Bibbia, emblematica di dove può arrivare l’essere umano quando l’invidia, la gelosia, il conflitto sfugge di mano e libera le potenzialità di male presenti in tutti ma che la ragione dovrebbe saper gestire.

La mia piccola esperienza. Sono Vescovo a Chioggia da pochi mesi e come in ogni realtà ci sono diverse tensioni, conflitti, divisioni. La strada che mi appartiene è da sempre quella del dialogo, della mediazione, della fiducia nella ragionevolezza delle persone. Cero di far leva sulle sementi di bontà che credo ci siano in ogni persona. Un giorno una persona mi dice: «Col tuo stile di mediazione non andrai molto lontano». Come dire che la mitezza non porta da nessuna parte, mentre servirebbe forza e autorità. Non nascondo che spesso mi viene in mente questa frase.

L’elogio della mitezza

Il filosofo Norberto Bobbio ha pubblicato nel 1993 un libricino intitolato Elogio della mitezza, dove parla della mitezza come della più “impolitica” delle virtù e si può comprendere questa sua posizione guardando all’agone politico dove troppo spesso si cerca il potere seguendo la strada dell’arroganza, della denigrazione dell’avversario che diventa il nemico da sconfiggere con ogni mezzo.

Tuttavia Bobbio però si sente attratto e affascinato da questa virtù. Fa sue le parole del filosofo torinese Carlo Mazzantini che definisce la “mitezza” con la bellissima espressione: “lasciare essere l’altro quello che è”. Il “mite” sarebbe colui che lascia essere l’altro ciò che è, anche se è arrogante, violento, prepotente. Non lo vuole cambiare con le stesse armi ma con uno stile che un po’ alla volta lo disarmi, mettendogli davanti l’assurdità della prepotenza.

La “mitezza” quindi è il contrario dell’arroganza, dell’ostentazione dell’arroganza, della prepotenza. L’“uomo mite”, afferma Bobbio, non ama la competizione, le gare, la rivalità. Egli vorrebbe vivere una vita in cui non esistano né vincitori né vinti.

Bobbio però ricorda che la mitezza non è “remissività”. Il remissivo è colui che rinuncia a lottare per paura o debolezza, mentre il mite rifiuta il senso della lotta per come gli uomini la intendono, ovvero mossi dalla vanità, dal narcisismo, dal desiderio di primeggiare. L’uomo mite non si lascia sopraffare dal desiderio di vendetta e non perpetua le liti per principio o puntigliosità. L’uomo mite fa della “resa” un’arma per vincere perché nella guerra tutti i contendenti ne usciranno comunque sconfitti.

Ci potremmo chiedere: «Se il mite rinuncia ad avere ragione vuol dire che ama cedere, che rinuncia alle sue ragioni?» Bobbio sottolinea l’animo da mediatore dell’uomo mite. La cedevolezza, infatti, è la disposizione di colui che ha accettato la logica che nella vita tutto (o quasi) costituisca una gara dove deve esserci sempre un vincitore e un vinto.

Il “mite” non è vendicativo, non serba rancore, non alimenta l’odio, non rimugina sulle offese ricevute, non riapre le ferite. Egli vuole stare prima di tutto in pace con gli altri perché solo così sarà in pace con sé stesso.

Il “mite”, inoltre, non è un debole, un bonario che ama la vita tranquilla e fugge la conflittualità. La debolezza nasce spesso è figlia della poca autostima, mentre la mitezza è figlia di un’identità forte, sicura di sé, che sceglie questo stile nelle relazioni verso gli altri.

Infine il “mite” è tollerante, rispetta gli altri senza chiederne in cambio la reciprocità. La “mitezza” è quindi una virtù sociale e unilaterale.

La mitezza come utopia

La mitezza richiama altre virtù che possono esser a volte anche dei sinonimi: la persona mite è paziente, benigna, benevola, docile, buona, dolce, mansueta, clemente, affabile, umana e gentile all’interno di una società spesso crudele, dura, spietata.

Vorrei citare alcuni autori e le loro definizioni di mitezza.

1) Norberto Bobbio: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Anzi, essa vuole essere come un seme efficace piantato nel terreno della storia per il progresso, per la pace, per il rispetto della dignità di ogni persona. Ma aspira a raggiungere questo scopo rifiutando la gara distruttiva della vita, la vanagloria e l’orgoglio personale e nazionalistico, etnico e culturale, scegliendo la via del distacco dalla cupidigia dei beni e l’assenza di puntigliosità e grettezza».

2) Achille Campanile, nelle sue Vite degli uomini illustri (1975) mette in bocca a un Socrate immaginario questo consiglio un po’ malizioso: «Chi ha ragione di solito non urla, non scaraventa oggetti, ma lascia che la ragione s’imponga da sé… C’è chi sapendo di aver torto e non potendo ricorrere ad altri argomenti, scaraventa oggetti in terra, urla, minaccia, poi sbatte la porta e se ne va».

A tutti è accaduto di imbattersi in scenate analoghe a quella tratteggiata, messe in atto da persone prepotenti e in palese torto: si deve con amarezza ammettere che costoro riescono a generare rispetto e persino a lasciare il sospetto che, in fondo in fondo, un pizzico di ragione forse ce l’abbiano.

La persona mite, calma e pacata, schierata dalla parte del vero e del giusto è, invece, convinta che basti la forza della ragione e della pazienza. Ma il risultato è spesso quello di essere sbeffeggiata o ritenuta poco convincente.

3) Carlo Maria Martini. «L’uomo mite è colui che, malgrado l’ardore dei suoi sentimenti rimane duttile e sciolto, non possessivo, interiormente libero, sempre sommamente rispettoso del mistero della libertà, imitatore in questo di Dio che opera tutto nel rispetto dell’uomo e muove l’uomo all’obbedienza e all’amore senza mai usargli violenza. La mitezza si oppone così a ogni forma di prepotenza materiale e morale».

4) Salvatore Vaccarella scrive: «La volontà di potenza inghiotte ogni speranza, appiattisce la realtà in una dimensione orizzontale, spiana la via che porta al nulla». C’è un antidoto vero ed efficace contro questo processo distruttivo ed è la mitezza, la via per promuovere il dialogo, i legami sociali, la valorizzazione delle differenze, abitare le relazioni umane

5) Don Oreste Benzi afferma che il mite è veramente il padrone della storia (“possiederanno la terra”). Colui che è violento è sempre un debole. Il mite è colui che ha la chiarezza della giusta ragione e che non ha nulla di proprio da difendere, neanche la vita, ma ha soltanto la giustizia da portare avanti, quindi non si piega mai.

6) Claudio Saita: «La persona mite, proprio perché desidera costruire una casa comune, non vuole possedere l’interlocutore, non vuole imbonirlo con i suoi discorsi. Spera che con il dialogo possa incontrare l’interlocutore, riconoscerlo nella sua diversità».

La mitezza di Gesù

Tutte le beatitudini sono una concretizzazione della prima che afferma: «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli».

Il modello del mite rimane lo stesso Cristo che delinea proprio la mitezza come sua qualità distintiva e fonte di imitazione per il discepolo: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). E continua con una citazione del profeta Geremia (6,6): «Così troverete riposo per le vostre anime».

L’autoritratto di Gesù mite lo vediamo nel giorno del suo ingresso a Gerusalemme. Ne aveva parlato il profeta Zaccaria (9,9): «Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma» (Mt 21,5).

La scorsa domenica delle Palme ho parlato dell’asino e oggi riprendo le parole di quel giorno.

Quando eravamo piccoli e qualcosa non andava bene a scuola ci dicevano che eravamo degli asini. E così nel nostro immaginario l’asino è sempre stato simbolo di scarsa intelligenza, di lentezza e incapacità. Tutt’altra cosa erano certi studenti che assomigliavano invece a dei cavalli maestosi e nobili col loro portamento regale e le loro capacità.

L’ingresso di Gesù a Gerusalemme è il riscatto dell’asino che diventa simbolo di ben altro rispetto ai nostri limiti scolastici. Simbolo del messianismo di Gesù che non entra a Gerusalemme sopra un cavallo bianco né usa un carro regale, ma un’umile cavalcatura destinata a portare tanto peso, a compiere un umile servizio ma anche disponibile e affabile.

Gesù prepara il suo ingresso regale dando un colpo definitivo a ogni falsa idea della sua missione e della sua regalità. Prima l’asino, poi la lavanda dei piedi, poi l’arresto e l’umiliazione e infine la croce, trono e altare del Dio alternativo rispetto ad ogni idea di un Dio potente, da sempre presente nell’immaginario umano.

Potrebbe sembrare blasfemo questo accostamento di Gesù a un asino se non fosse Gesù stesso a scegliere un’asina. L’asino porta sulle spalle la soma come Gesù porta sulle spalle il peso di tutti noi. L’asino compie un umile servizio e Gesù è venuto per servire.

E tutto questo non con orgoglio, ma nella mitezza, nel silenzio, nella gratuità; «Sono venuto per servire e dare la vita». Su quell’asino, dice il Vangelo, non era ancora salito nessuno, a ricordare che lo stile scelto da Gesù è qualcosa di nuovo, inedito. Un nuovo inizio.

Ma quell’asino è legato e bisogna scioglierlo e liberarlo come se si trattasse di sdoganare un nuovo volto di Dio: «Ecco a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma».

Siamo invitati a slegare un’asina, per liberare la capacità di amare, di servire, l’umiltà, la disponibilità, la mitezza. Dio è amore, l’uomo è immagine di Dio ed è chiamato ad amare, a servire, a portare i pesi degli altri, a perdere la vita per ritrovarla.

Ma non è scontato, automatico, naturale, servire. La nostra natura ferita vorrebbe essere servita, capita, amata, sostenuta. L’io prevale sempre sul tu e sul noi. Ma in ciascuno di noi c’è la semente del servizio, della mitezza, dell’umiltà; ma questa va scelta, sciolta, curata, nutrita, liberata, educata.

La missione di ogni cristiano è anche quella di liberare l’asino che c’è in ogni uomo perché l’uomo diventi servo, servo per amore. Ma prima di liberare l’asina che c’è in ogni uomo e donna, dobbiamo liberare la nostra per essere noi per primi servi per amore.

A Gerusalemme Gesù amerà, amerà fino alla fine. Si sottoporrà al potere di Pilato, di Caifa e di Anna ridicolizzandone le pretese. Loro passeranno inesorabilmente, lui col suo asinello e la sua mitezza rimarrà in eterno.

Accetterà l’umiliazione delle percosse e il grido della folla ma alla fine la pietra scartata diventerà pietra angolare e il seme caduto porterà frutto.

Miti non si nasce ma si diventa

La mitezza, ha detto papa Francesco, «si manifesta nei momenti di conflitto, si vede da come si reagisce ad una situazione ostile. Chiunque potrebbe sembrare mite quando tutto è tranquillo, ma come reagisce “sotto pressione”, se viene attaccato, offeso, aggredito? E la mitezza di Gesù si vede fortemente nella sua Passione».

Il mite «non è un codardo, un “fiacco” che si trova una morale di ripiego per restare fuori dai problemi. Tutt’altro! È una persona che ha ricevuto un’eredità e non la vuole disperdere».

«Il mite non è un accomodante, ma è il discepolo di Cristo che ha imparato a difendere ben altra terra. Lui difende la pace, difende il suo rapporto con Dio e i suoi doni, custodendo la misericordia, la fraternità, la fiducia, la speranza. Perché le persone miti sono persone misericordiose, fraterne, fiduciose e persone con speranza».

La controprova? Papa Francesco fa riferimento all’ira, «un moto violento di cui tutti conosciamo l’impulso. Dobbiamo rovesciare la beatitudine e farci una domanda: quante cose abbiamo distrutto con l’ira? Quante cose abbiamo perso? Un momento di collera può distruggere tante cose; si perde il controllo e non si valuta ciò che veramente è importante, e si può rovinare il rapporto con un fratello, talvolta senza rimedio. Per l’ira tanti fratelli non si parlano più, si allontanano l’uno dall’altro, è il contrario della mitezza: la mitezza raduna, l’ira separa».

«La mitezza invece conquista tante cose. La mitezza è capace di vincere il cuore, salvare le amicizie e tanto altro, perché le persone si adirano ma poi si calmano, ci ripensano e tornano sui loro passi, e si può ricostruire».

«Ma noi sappiamo invece che la vera “terra” da conquistare è la salvezza di quel fratello di cui parla lo stesso Vangelo di Matteo: «Se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello».

«Non c’è terra più bella del cuore altrui, non c’è territorio più bello da guadagnare della pace ritrovata con un fratello. Quella è la terra da ereditare!».

«E dunque il programma di vita proposto dalle Beatitudini è, alla fine, fondato non sul ripiegamento ma sulla “buona battaglia”, sulla scelta tra il bene e il male. Indipendentemente da quanto attrattive possano apparire le lusinghe del male.

L’utopia della mitezza è l’utopia scritta nel libro dell’Apocalisse, un testo che contiene tanta violenza ma alla fine sogna una «terra nuova, perché il cielo e la terra di prima sono scomparsi» (Ap 21,1). La terra che sogniamo, quella che vorremmo abitare, quella che Dio ha pensato per i suoi figli è la terra dei miti. Ci possiamo provare!

Eredi della terra

Il premio destinato ai miti è espresso attraverso il ricorso a un passo salmico secondo il quale «i poveri erediteranno la terra e godranno di una grande pace» (Sal 37,11).

È curioso notare che questo passo biblico è ripreso anche nel Corano quando Dio afferma: «Noi abbiamo scritto nei Salmi… che la terra l’avrebbero ereditata i miei servi buoni» (XXI,105).

Il tema dell’“eredità” ha nell’Antico Testamento un grande rilievo e prevalentemente esso si raccorda, al tema della terra promessa.

Nel Nuovo Testamento l’“eredità” e l’“ereditare” acquistano prevalentemente il significato metaforico che, ad esempio, pone come oggetto di questa eredità il Regno di Dio (Mt 25,34; 1Cor 15,50), oppure la vita eterna (ad esempio, Mt 19,29).

Il simbolo dell’eredità della “terra” è normalmente applicato alla terra d’Israele, la terra promessa, sede della storia e della vita libera del popolo ebraico biblico. Questa realtà, infatti, era molto più di una semplice espressione topografica. Come si diceva, era già per l’Antico Testamento un simbolo di pienezza, tant’è vero che riceveva descrizioni destinate a superare il mero dato geopolitico: «Terra buona e bella, terra di torrenti, di fonti e di acque sotterranee, sgorganti nella pianura e dalla montagna, terra di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni, terra di ulivi, di olio e di miele, terra dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla, terra dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame» (Dt 8,7-9).

Per questo possiamo dire che Gesù pensava alla terra biblica ma ovviamente nel suo valore di simbolo di pienezza. La Terra Santa geografica acquista, così, un valore trascendente, affacciato su un futuro perfetto ove lo spazio territoriale della Gerusalemme celeste sarà incastonato nella «terra nuova, perché il cielo e la terra di prima sono scomparsi» (Ap 21,1).

Mentre i potenti allargano con la violenza e la sopraffazione il loro possesso ereditario «aggiungendo casa a casa, unendo campo a campo, così che non vi sia più spazio e restino solo loro ad abitare la terra» (Is 5,8), i miti, che non prevaricano e non pretendono spazi grandiosi sgomitando, saranno da Dio accolti nella terra rinnovata che è sua creazione e suo legittimo possesso.

 

(Meditazione tenuta dal Vescovo di Chioggia, Giampaolo Dianin, domenica 19 giugno alle ore 7:30 ad Ariano nel Polesine (RO) presso le Dune fossili di Rosada, nell’ambito del Festival Biblico in villeggiatura)



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