Libro di rivelazione e profezia, l’Apocalisse entra nel cuore della storia per annunciare la liberazione dalla violenza nell’orizzonte buono della creazione. Il servo Giovanni vede quel «cielo e terra nuova» (Ap 21,1) e ha ricevuto parole per manifestarli. Non si scoraggino i fedeli, dunque: per quanto dura la lotta, arriverà – anzi è già arrivato – quel giorno di gioia senza più morte, giorno in cui tutte le lacrime saranno asciugate (cfr. Ap 21,4). Beato, allora, chi legge e beati coloro che ascoltano e mettono in pratica ciò che Dio ha affidato al suo servo Giovanni (Ap 1,3). Perché la vittoria appartiene al Leone/Agnello e a quelli che lo seguono e resistono con lui (Ap 5,5-6; 19,1-21).

 

Non c’è dubbio, Apocalisse racchiude la grande speranza di coloro che si trovano dalla parte “giusta” di questa storia. In questo scontro epocale è tuttavia interessante soffermarsi sul modo in cui sono rappresentati gli amici e i nemici del Signore. L’Autore, infatti, ritrae gli opposti schieramenti dandogli forma di donne. Da una parte, la falsa profetessa di Tiatira (Ap 2,18-29) e Babilonia la grande prostituta (Ap 17-19); dall’altra la donna vestita di sole (Ap 12,1-6) e Gerusalemme, la città fidanzata e sposa risplendente di luce divina (Ap 21-22). Sono queste le uniche figure femminili del libro, immagini polarizzate che incarnano, agli occhi dell’Autore, rispettivamente tutto il male e tutto il bene.

La prima a scendere nel campo di battaglia narrativo è Gezabele. Un nome che basta da solo a evocare una tra le più terribili vicende narrate nelle Scritture (cfr. 1Re 16; 2 Re 9). Avversaria di Elia, il paladino di Yhwh che difende la purezza della fede in Israele, Gezabele è il prototipo della donna malvagia, perfida, priva di scrupoli, arrogante, bugiarda. Nulla rimarrà del suo corpo, se non le parti “neutre”: cranio, mani e piedi. Il suo ventre, il suo sesso sarà divorato dai cani. E come quella femme fatale, che istigò il marito a compiere il più grande male agli occhi del Signore, anche la Gezabele di Apocalisse è una fornicatrice spudorata, che attira gli altrimenti innocenti servi del Signore nelle profondità di Satana. Infedele e disobbediente questa che si dice profetessa è all’opposto della donna vestita di sole, obbediente e devota la cui legittima progenie verrà tratta in salvo. I figli di Gezabele, invece, moriranno per colpa di questa madre snaturata che rifiuta di convertirsi.

Le donne dell’Apocalisse sono così, le sante o le prostitute da cui traspare il mondo valoriale dell’Autore e i suoi modelli identitari. Ma nel momento stesso in cui ci rivela gli atteggiamenti da lui ritenuti leciti, non mostra anche ciò che forse teme? Giovanni non fa, per esempio, parlare nessuna donna “per bene”. Parla, invece, Gezabele, ma i suoi discorsi portano alla perdizione. Lo fa Babilonia e sebbene le sue parole rimangono dentro di lei (cfr. Ap 18,7), segnalano il pericolo di una donna che anche quando tace può covare terribile iniquità. Nel castigo di Gezabele, inoltre, e nella distruzione di Babilonia non è possibile scorgere, almeno in parte, il tentativo di arginare un certo tipo di protagonismo femminile e, al contrario, la promozione di una più desiderabile docilità?

Sono questi alcuni degli interrogativi stimolanti con cui i lettori e le lettrici di Apocalisse possono confrontarsi. Tramite le donne del libro, tanto le buone quanto le cattive, il velo si alza su un possibile lato più oscuro di Apocalisse: proprio attraverso i simboli con cui ci consegna il suo messaggio sovversivo, rischia infatti – se non si riconoscono alcuni stereotipi – di riprodurre e perpetuare altri schemi di dominio.

 

 



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