con Pierdavide Guenzi (professore Teologia morale Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per la Scienze del matrimonio e della famiglia di Roma)
conduce Ilenya Goss
Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (1 Gv 4,20)
1 Giovanni 4,20 approfondisce in modo drammatico quanto la versione del “grande comandamento” nei Vangeli sinottici esprime in termini di unità e reciprocità tra lo slancio amoroso nei confronti di Dio e quello riservato al “prossimo”. Da una parte, il brano biblico di tradizione giovannea ha radicato l’espressione umana dell’amore nell’origine di un Dio che è, e continua a essere, agape; dall’altra il versetto in questione, insiste sul “vedere” e “non vedere”. L’ovvietà che si cela dietro l’espressione “Dio che non (si) vede” è precisata dal paradosso di “non (voler) vedere” il “fratello” che continua a presentarsi al nostro sguardo. Tale occultamento assume il profilo di una menzogna e pregiudica ogni ricerca di Dio che non passi attraverso la deposizione dell’odio e la disposizione di sé nei confronti del fratello/della sorella. In quali situazioni, oggi, lo schermo di fronte al fratello/alla sorella è calato per celare alla visita l’evidenza di un legame che accomuna gli esseri umani? Uno schermo che non solo nasconde l’altro/l’altra, ma deforma il volto di Dio-agape, sostituito da rappresentazioni immaginifiche del divino.
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