testo di Fabio Polese
Sono una minoranza etnica di fede buddhista, cristiana e animista che da 70 anni lotta per l’autonomia. Dopo il colpo di Stato del generale Min Aung Hlaing, che nel 2021 ha bloccato le riforme democratiche della premio Nobel Aung San Suu Kyi, i karen combattono accanto ai guerriglieri di altri eserciti etnici e del Governo clandestino. Li abbiamo seguiti sulla prima linea di questa guerra civile che il mondo, indifferente, resta a guardare.
«Così sono protetto, nessun proiettile potrà colpirmi, afferma convinto Yeynt mentre sistema con cura alcuni amuleti buddhisti attorno al collo. Ha poco più di vent’anni ed è ricoperto di tatuaggi. «Si chiamano Sak Yant, e per noi sono magici. Venivano usati nel passato dai guerrieri in Thailandia e in Myanmar», spiega. Poco distante, un gruppo di ragazzi si è radunato per pregare. Sono cristiani: alcuni cattolici, altri protestanti. Le loro voci si uniscono in preghiera, preparando lo spirito per la battaglia imminente. Buddhisti e cristiani combattono fianco a fianco, uniti dalla stessa causa. Nonostante le differenze religiose, condividono l’obiettivo comune di difendere la loro terra e il loro popolo.
I Karen sono un gruppo etnico di circa 7 milioni di persone e rappresentano il 7% della popolazione del Myanmar. La maggioranza pratica il buddhismo (circa il 60%), il 30%, invece, è cristiana e il resto segue l’animismo, l’antica religione locale. Non hanno mai avuto conflitti interni legati alla religione. Da oltre 70 anni lottano per l’autonomia. Questo rende la loro lotta di resistenza una delle guerre civili più lunghe e sconosciute al mondo. La situazione si è ulteriormente aggravata con il colpo di Stato del 2021.
Questo assalto è solo una delle numerose operazioni condotte in tutto il Paese dagli eserciti etnici come il Kawthoolei Army (Ktla) e dal People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo clandestino che si è formato dopo il golpe, con l’obiettivo di rovesciare i militari al potere e creare uno Stato federale.
«Le azioni coordinate stanno infliggendo gravi perdite alla giunta in termini di uomini, armi, attrezzature, basi e supporto”, spiega il generale Nerdah Mya, leader del KtlaA. «Siamo qui a condurre la nostra offensiva mentre altre fazionikaren attaccano diversi avamposti birmani», sottolinea.
Il punto di non ritorno è stato raggiunto quando il generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate del Myanmar, ha preso il potere nelle prime ore di quello che sarebbe dovuto essere il giorno d’inaugurazione del nuovo Parlamento, il primo febbraio 2021. Ha posto fine a un breve periodo di riforme democratiche guidate dalla National League for Democracy (Nd) di Aung San Suu Kyi — premio Nobel per la pace nel 1991 — catapultando il Paese in un conflitto tanto devastante quanto dimenticato.
Secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), organizzazione specializzata nell’analisi delle guerre, finora ci sono stati almeno 50 mila morti.
A questi si aggiungono 2,6 milioni di sfollati — in un Paese di circa 55 milioni di abitanti — segnalati alla fine del 2023 dall’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Per l’Unicef, oltre 5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria e 7,8 milioni di adolescenti sono privi di istruzione. L’economia del Myanmar è al collasso, con un tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 40%. A questo drammatico quadro si sommano più di 27 mila persone arrestate — dati dell’Assistance Association for Political Prisoners — per essersi opposte alla giunta militare. Tra loro anche Aung San Suu Kyi, oggi 78enne, condannata a 33 anni di carcere con numerosi capi d’accusa, molti dei quali ritenuti infondati.
Sono circa le cinque del mattino. L’assalto all’avamposto militare birmano di Teekpler, nel distretto di Dooplaya vicino al confine con la Thailandia, è previsto per le sei, quando tutti i guerriglieri saranno in posizione. L’aria è umida e pesante. Il ronzio degli insetti riempie l’atmosfera, interrotto solo dal rumore meccanico delle armi controllate un’ultima volta. I volti dei combattenti sono concentrati. I loro occhi, mi sembra, esprimono una forte determinazione.
Yeyint esamina il suo M16, il fucile d’assalto. «Da quasi quattro anni combattiamo questa guerra. Lo facciamo per la nostra terra e per la libertà del nostro popolo», mi dice senza distogliere lo sguardo dall’arma. Un comandante passa tra le file, dando le ultime istruzioni. Ognuno conosce il proprio ruolo. «E ora», sussurra qualcuno. I guerriglieri si muovono silenziosamente, scomparendo nella vegetazione. Li seguo e, dopo circa mezz’ora, mi trovo nella postazione di un cecchino, a poche centinaia di metri dalla base birmana. A dare inizio all’attacco è proprio l’uomo
accanto a me. Si chiama Galawa, ha circa trent’anni. Ascolta con attenzione una vecchia radio, pronto a eseguire gli ordini. Ci siamo. Con mira precisa, centra la feritoia del bunker nemico. Il suo colpo rompe il silenzio dell’alba e dà avvio alla battaglia. Intorno a noi risuonano scambi di fuoco intensi. Raffiche di proiettili, esplosioni di mortai birmani da 120 mm e boati d’artiglieria pesante.
La mattina è appena iniziata e la densa nebbia che avvolge la foresta si sta lentamente alzando, rivelando i segni di uno scontro lungo e feroce.
Dopo alcune ore di combattimento, iniziano i primi bombardamenti aerei. I birmani hanno
chiamato in aiuto l’aeronautica. Un MiG-29 sorvola la zona, pronto a
colpire indiscriminatamente civili e guerriglieri. «Aereo! Aereo!), grida Lekò, un fedele di Nerdah Mya vicino a me, mentre si getta a terra sperando di non essere colpito. Il jet delle forze armate del Myanmar passa sopra le nostre teste due volte, sganciando bombe da 500 chili. Fortunatamente, nessuno di noi viene ferito. Alla radio, i «combattenti della giungla» esultano, gridando «Kawthooleî Army! Kawthoolei Army!. Ma presto scopriamo chel’unica chiesa del villaggio è stata bombardata. Per vedere cosa rimane, mi accompagna Baw
Saw Lob, ironicamente il capo del gruppo dei buddhisti. «Non importa se siamo cristiani o buddhisti, hanno colpito il cuore della nostra comunità», dice con amarezza, osservando le macerie fumanti. «Questo attacco rafforza solo la nostra determinazione resistere).
Dopo il colpo di Stato del febbraio 2021, le persecuzioni contro le minoranze etniche e religiose si sono intensificate, specialmente nelle regioni abitate dai Karen e dai Karenni (quasi
completamente cattolici). Numerose chiese sono state attaccate, danneggiate o distrutte
dalle forze militari. Secondo rapporti di organizzazioni umanitarie come Christian Solidarity Worldwide e Amnesty International, almeno 40 istituti religiosi cristiani sono stati colpiti in tutto il Paese dal 2021. Nello Stato Karen, diverse chiese sono state bersaglio di bombardamenti e attacchi aerei.
Il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Conferenza episcopale del Myanmar, ha espresso profonda preoccupazione per la situazione. Nonostante le persecuzioni, cristiani e buddhisti tra i Karen, così come in altre zone etniche del Paese, continuano a combattere fianco a fianco. Uniti nell’intento di liberare il Myanmar dalla giunta al potere. Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Myanmar, ha espresso «profonda preoccupazione» per l’intensificarsi dei bombardamenti. E ha rivelato che, secondo i dati a sua disposizione, «gli attacchi aerei da parte delle forze armate birmane sono quintuplicati da ottobre 2023 a oggi».
Mentre la popolazione del Myanmar è lacerata dal conflitto e i cieli rimbombano per l’eco dei caccia da combattimento, il mondo rimane a guardare. La Cina, da sempre alleata dei militari golpisti, osserva gli sviluppi mantenendo ‘una posizione ambigua tra il sostegno al regime militare e la cauta attenzione alla pressione internazionale. Molti analisti, nonostante non stia di fatto succedendo, ritengono che Pechino potrebbe essere determinante nel riportare la pace nel Paese. «La Cina adotta una doppia strategia. Il colpo di Stato ha creato tensioni, ma sono pragmatici e pronti ad adattarsi pur di proteggere i loro interessi», mi spiega Zachary Abuza, docente al National War College di Washington.
Con una lunga storia di relazioni diplomatiche ed economiche alle spalle, Pechino ha investito miliardi di dollari nei settori dell’energia e delle infrastrutture attraverso il Corridoio economico Cina-Myanmar (Cmec), componente fondamentale della sua Belt and Road Initiative (Bri), nota anche come «One Belt, One Road». Lanciato nel 2013 dal presidente Xi Jinping, questo ambizioso progetto infrastrutturale — attualmente in stallo — mira a creare una vasta rete di rotte che colleghino la Cina con il resto del mondo. L’obiettivo principale è sviluppare, attraverso la Birmania, una nuova via commerciale alternativa allo Stretto di Malacca, da cui transita circa l’80% del petrolio importato dalla Repubblica popolare, proveniente dal Medio Oriente. Tra i progetti chiave c’è il porto di Kyauk Phyu, nel Golfo del Bengala, che ha già assorbito investimenti per circa 8 miliardi di dollari e prevede lo sviluppo di autostrade, gasdotti e oleodotti. Queste infrastrutture connetterebbero lo Stato Rakhine (o Arakan), teatro di violenti scontri tra la guerriglia dell’Arakan Army e le forze armate, direttamente con la città cinese di Kunming, nello Yunnan, offrendo una rotta alternativa per il trasporto di petrolio dal Golfo Persico.
Il sole è ormai alto quando raggiungiamo un villaggio ai margini della giungla. Le case di legno sono deserte, le finestre spalancate come occhi vuoti. Un silenzio innaturale avvolge l’area, mentre i combattimenti stanno pian piano scemando. «Qui viveva la mia famiglia», mi dice sottovoce Naw, una giovane combattente del Pdf. «Sono fuggiti tutti quando sono iniziati bombardamenti». Mentre avanziamo tra le abitazioni abbandonate, notiamo i segni dei combattimenti. I muri sono crivellati di colpi, gli oggetti personali sparsi sul terreno, i simboli religiosi distrutti. In lontananza, una colonna di fumo nero si alza verso il cielo. «I campi stanno bruciando», osserva con amarezza Ko Than, un agricoltore che ha imbracciato le armi per difendere la sua terra. «Vogliono lasciarci senza nulla».
Improvvisamente, un’esplosione squarcia l’aria. Ci ripariamo come possiamo, buttandoci a terra.
«È un mortaio da 120 millimetri», dice Galawa, il cecchino che avevo conosciuto all’alba. «Dobbiamo muoverci». Riprendiamo il cammino, cercando di mantenere un profilo basso, fino ad arrivare a una piccola strada sterrata, dove due fuoristrada ci stanno aspettando. «Salite, veloci!», urlano dall’interno. Tra loro c’è anche Yeyint, il giovane dai tatuaggi magici, che non avevo più incrociato durante i combattimenti. «I proiettili non mi hanno preso», sorride. Ma il suo sguardo tradisce la consapevolezza del pericolo costante.
«Non possiamo arrenderci», afferma con determinazione il generale Nerdah Mya, rivolgendosi ai suoi uomini. «La nostra libertà ha un prezzo, e siamo disposti a pagarlo». Le sue parole risuonano
come un eco tra gli alberi, infondendo coraggio a chi lo ascolta. Prima di lasciarli chiedo a Baw Saw Loh quale sia la sua speranza per il futuro. «Vogliamo solo vivere in pace, risponde.«Buddhisti, cristiani, non importa. Siamo tutti Karen, e questa è la nostra casa».
Mentre il crepuscolo inizia a scendere, mi allontano dal fronte. Il suono della battaglia si attenua,
sostituito dai rumori della foresta notturna. Penso alle storie che ho ascoltato, ai volti segnati dalla
sofferenza ma illuminati dalla speranza. La guerra qui è una realtà quotidiana, un grido di resistenza contro l’oppressione. Il Myanmar rimane avvolto in un silenzio internazionale che pesa quanto le armi che qui vengono impugnate. Eppure, tra la giungla e le montagne, un popolo continua a lottare per la propria identità e libertà. Una lotta che il mondo non può più permettersi di ignorare.